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Riflessioni in merito ai successi del Mo.P.I. e consigli - non richiesti - di politica professionale all'Ordine degli Psicologi della Lombardia

di Anna Barracco, Rolando Ciofi, pubblicato il 16/12/2003, fonte Simposio n° 11, Primavera 1999

tag: ordine professionale, legge di ordinamento, L. 56/89, norme transitorie

Con la vittoria del MoPI (Legge 14 gennaio 1999 n. 4) e la «riapertura» dell’art.34, si è potuta ottenere la tutela dei diritti di molti colleghi che, come la legge dichiarava esplicitamente, avendo intrapreso entro il 1989 una Scuola di Specializzazione «almeno triennale in psicologia o in uno dei suoi rami», oggi possono iscriversi all’Ordine, (previa dimostrazione del conseguimento del diploma rilasciato dalla suddetta Scuola) dopo aver sostenuto l’esame di Stato.

Questo riapre la questione della posizione degli psicologi iscritti all’Ordine, grazie alle norme transitorie, quindi non solo i cosiddetti «trentaquattristi», ma anche i colleghi che si sono iscritti con gli artt. 32 e 33. Infatti si è venuta a creare, in questi anni una disparità di trattamenti e di diritti, estremamente incresciosa, fra gli psicologi iscritti ex art. 2, cioè in base ai requisiti previsti dalla legge a regime, e quelli che si sono iscritti usufruendo delle norme transitorie.

Gli Ordini Regionali, e alcuni più di altri, si sono mostrati molto poco sensibili a questi problemi, e di fatto hanno cercato di ignorare quelle che ritenevano «minoranze» (e che effettivamente, a dieci anni dalla prima applicazione della L. 56/89, con il progressivo ingresso sulla scena professionale dei giovani laureati in Psicologia, sarebbero divenute tali, almeno in termini di incidenza statistica), e per di più non ritenute realmente in possesso dei requisiti necessari ad esercitare degnamente la professione.

Questo atteggiamento di negazione dei fatti, si è tradotto, nella pratica, in un tentativo da parte degli Ordini, di snaturare, svuotare, togliere senso all’abilitazione e all’iscrizione all’Ordine, laddove tale iscrizione, appunto, fosse stata ottenuta non in base all’art. 2, bensì in base agli art. 32,33 e 34. Gli Ordini sarebbero stati chiamati a fare da interfaccia con le realtà istituzionali, per esempio adeguando i formulari di accesso ai Concorsi pubblici, (che per i posti di psicologo prevedono, fin dall’entrata in vigore della legge, come requisito necessario, la laurea in Psicologia), individuando criteri semplici e chiari di «equipollenza» dei titoli universitari e di carriera conseguiti dai colleghi (come per altro è chiaramente suggerito dagli artt. 32 e 33, e in parte anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 412/95) .

Gli Ordini, forse anche comprensibilmente preoccupati di affrontare e risolvere molte altre questioni di politica professionale (come l’agganciamento al ruolo unico) hanno considerato fin da subito la presenza di questi colleghi, che venivano da percorsi di studio differenti, come una presenza scomoda, un problema politico del quale, per non rischiare l’immagine, bisognava cercare di occuparsi il meno possibile, nella speranza che col tempo le minoranze avrebbero perso definitivamente la possibilità di far valere i propri diritti.

Oggi però, con la vittoria del Mo.P.I., è stato dimostrato che le ragioni della legge non sono eludibili, e che il problema non poteva essere semplicemente rimosso.

A causa della sordità e della scarsa lungimiranza degli Ordini, che pensavano di poter ignorare i sacrosanti diritti dei colleghi che si erano iscritti all’Ordine con laurea e magari (come nel caso di una degli scriventi) anche specializzazione universitaria triennale, è stato falsato lo spirito della legge, che era invece chiaramente quello di ritenere la formazione accademica (leggi: laurea in psicologia oppure altra laurea con documentata attività accademica, o idoneità a concorsi, o specializzazione universitaria «professionalizzante») necessaria e sufficiente per iscriversi all’Ordine (con la sola eccezione dei colleghi del 32/D) ed esercitare la professione di psicologo, mentre per l’autorizzazione all’attività di psicoterapeuta, occorreva altra preparazione, preparazione specifica, acquisita successivamente ai titoli accademici.

Per questo motivo ci si troverà di fronte ad una nuova ondata di iscrizioni agli Ordini Regionali di colleghi che vengono da percorsi formativi diversi da quelli previsti dalla legge a regime, alcuni dei quali non sono laureati.

Per evitare di rifare gli errori fatti in passato, credo sia necessario avere ben chiaro che i loro diritti sono tutelati in modo inequivocabile dal nuovo art. 34. La modifica che è stata approvata, stabilisce che per sostenere l’esame di stato, e dunque successivamente per esercitare la professione di psicologo era (sino alla sessione di esami di stato aprile 1999) sufficiente l’aver svolto un corso almeno triennale in psicologia o in uno dei suoi rami, purché l’iscrizione a questo corso fosse avvenuta entro il 1989.

Il rischio, oggi, potrebbe essere quello di esacerbare la tendenza, già dimostrata storicamente fino ad oggi dalle procedure ordinistiche, di allargare la spaccatura, lo iato, fra gli psicologi laureati in psicologia e quelli iscritti in base alle norme transitorie, ergendo un muro, per esempio, rispetto alle possibilità di partecipazione a Concorsi Pubblici.

Questo ci porta a riflettere ancora una volta sull’impianto complessivo della legge 56/89, che fonde insieme psicologia accademica e psicoterapia.

Inizialmente proprio per istituire l’ordine e per non escludere da esso i personaggi più rappresentativi del panorama culturale del settore, è stato indispensabile mettere insieme psicoterapia e psicologia accademica. Nella realtà, quasi tutti i colleghi che hanno chiesto l’iscrizione all’ordine ex artt.32,33 e 34, erano psicoterapeuti per formazione e pratica, e sono stati in qualche modo indotti ad entrare nell’Albo degli psicologi per poter proseguire la loro pratica. Essi si erano formati alle scuole private di psicoterapia o psicoanalisi; molti di loro hanno una formazione accademica di tutto rispetto, ma non sempre sono laureati in psicologia: sono filosofi, linguisti, medici, matematici, sociologi, ecc., che in seguito hanno fatto anni di training presso le scuole di riferimento.

Il fatto però che alcuni colleghi, una minoranza, in base all’art.32/D, avessero ottenuto l’iscrizione all’ordine pur non essendo in possesso di una laurea, ma solo di una significativa formazione e pratica psicoterapeutica, ha prodotto questo irrigidimento estremo degli ordini, questa caccia alle streghe, ed il conseguente tentativo di congelare, snaturare e negare i diritti derivanti, per tutti i colleghi, dalle norme transitorie.

Questo irrigidimento, in alcuni casi, è arrivato persino all’esclusione, al rifiuto di iscrivere all’Ordine i colleghi 34isti non laureati, i cui titoli professionali erano arbitrariamente ritenuti non idonei (arbitrariamente, come è appunto dimostrato, oggi, dalla vittoria del MoPI); inoltre, anche per quei colleghi che avevano ottenuto l’iscrizione all’Ordine tramite l’Esame di Stato per soli titoli (= tramite artt. 32 e 33 e Ministero di Grazia e Giustizia), ma che si erano visti respingere la domanda per la sanatoria ex art.35, perché stavano ancora frequentando la scuola di psicoterapia, si è aperto il limbo delle «zone d’ombra» e delle «zone buie», che finiva per bloccare ogni evoluzione, creando l’assurdo paradosso per cui colleghi non laureati in psicologia (e spesso, proprio perché psicoterapeuti per pratica e formazione, senza alcuna formazione accademica in psicologia clinica, sperimentale o applicata) erano autorizzati a fare gli psicologi (cosa che non sapevano e non volevano fare), ma non potevano nè vedere garantita la loro formazione e la loro pratica, nè era loro consentito integrare tale formazione, o al limite ricominciarla daccapo, dando almeno all’avvenuta iscrizione all’Albo degli psicologi questo valore di requisito sufficiente per iscriversi ex novo ad una scuola di psicoterapia riconosciuta!

Oggi con la riapertura dell’art. 34 non solo queste «minoranze» torneranno ad avere un peso numerico e politico maggiore, ma con la riapertura dei termini dell’art.35 anche il numero dei colleghi che saranno autorizzati ad esercitare (o a riprendere l’esercizio) della psicoterapia, a partire dalla sanatoria, saranno un numero rilevante.

Che cosa comporterà questa nuova situazione? Sarà possibile continuare ad ignorare la questione, continuare a considerare gli psicologi/psicoterapeuti autorizzati in base alle norme a regime e quelli autorizzati in base all’art. 35 come due caste separate?

Sembra molto difficile, anche perché ora che l’agganciamento al ruolo unico è una realtà, ci troviamo nella situazione che per partecipare ad un concorso pubblico per psicologi nelle ASL o nelle Aziende ospedaliere, i requisiti necessari e sufficienti sono, come per i medici, la laurea in psicologia e la specializzazione universitaria, con il risultato che non si riescono a coprire i posti vacanti, e che gli ordini stanno già proponendo di considerare le autorizzazioni ex art.35 e i diplomi di psicoterapia rilasciati dalle scuole private riconosciute, come equipollenti alle specializzazioni universitarie di cui al D. M. 30.1.1998, il che implicitamente afferma che la formazione accademica di base (= laurea in psicologia, o altri titoli accademici di cui parla la Corte Costituzionale) sono necessari per la professione di Psicologo, mentre la formazione psicoterapeutica è cosa diversa.

D’altra parte da questa empasse non si esce: o si torna indietro sulla questione del «doppio canale», e si costringono tutti gli psicologi che vogliano fare gli psicoterapeuti nei servizi pubblici a frequentare una scuola universitaria, creando di fatto una spaccatura fra gli psicologi «pubblici» e i professionisti del privato, oppure si andrà a stabilire queste equipollenze.

Alcuni ordini Regionali, però, fra cui quello della Lombardia, si sono affrettati a precisare che la laurea in psicologia sarà comunque vincolante e indispensabile per partecipare ad un concorso pubblico. Dunque non la formazione accademica, acquisita precedentemente alla formazione psicoterapeutica, ma proprio la laurea in psicologia.

Ma sarà veramente possibile cavarsela così?

Proprio in Lombardia, dove guarda caso l’Ordine si è dimostrato particolarmente chiuso e «persecutorio», esisteva da moltissimi anni una Scuola di Specializzazione Universitaria, alla quale si accedeva da qualsiasi facoltà, a numero chiuso (10 posti all’anno per i laureati in medicina e 15 posti all’anno per i laureati in altre discipline) e frequenza obbligatoria.

Una scuola triennale (oggi quadriennale) che, come si evince chiaramente dallo Statuto, era professionalizzante. Per anni quella scuola ha messo sul mercato psicologi («Specialisti in Psicologia», per l’esattezza), che venivano ammessi ai Concorsi in base a questo titolo (universitario, post-lauream), e che oggi lavorano negli Ospedali e nelle Asl, insegnano nelle Università, e sono Consiglieri dell’Ordine.

Poniamo che alcuni di questi colleghi, laureati e specialisti in Psicologia, con diploma di abilitazione rilasciato dall’Università, a seguito di regolare esame di Stato e conseguente iscrizione all’Ordine, con regolare autorizzazione ad esercitare la psicoterapia ex art. 35, si trovino nella situazione di voler partecipare ad un Concorso Pubblico, dopo molti anni di consulenze e professione privata. Essi si vedrebbero respingere la domanda , «perché non in possesso del titolo specifico richiesto, cioè la Laurea in Psicologia».

A una degli scriventi, è già accaduto diverse volte. Poniamo anche che questi colleghi decidano di fare ricorso, perché, sempre in base a come stanno le cose, risultano in possesso dell’altro titolo specifico richiesto, e cioè la Specializzazione Universitaria valida ai sensi del D.M. 30.1.1998. Essi dimostrerebbero di aver conseguito questo titolo accademico di specializzazione prima della formazione psicoterapeutica, attività, quest’ultima, che svolgono in virtù dell’art. 35, e quindi sulla base di altra formazione, documentata e approvata.

Cosa farà il giudice? Il buon senso (e anche l’impianto complessivo della legge 56/89, nonché la sentenza della Corte Costituzionale) porterebbe a considerare la formazione accademica (=laurea più specializzazione universitaria), come equipollente alla Laurea in Psicologia (che è poi evidentemente la «ratio» seguita dall’Ordine della Lombardia, dal momento che nonostante il suo atteggiamento chiuso e restrittivo, ha permesso a questi colleghi, laureati in altre facoltà e specializzati, senza obiezioni la iscrizione all’Ordine), mentre la formazione in psicoterapia e l’autorizzazione ex art. 35 potrebbe essere fatta equivalere, esattamente come nel caso di colleghi laureati in psicologia, alla specializzazione universitaria.

Ma se il buon senso non prevalesse, se il giudice insistesse nel dire che «laurea in psicologia» significa «laurea in psicologia», e «specializzazione universitaria» significa «specializzazione universitaria», ci si troverebbe nella situazione in cui un titolo successivo, più elevato, conseguito e rilasciato da una pubblica Università, non viene considerato valido, anche se le norme che regolavano l’accesso alla scuola che tale titolo rilasciava erano diverse da quelle di oggi, e quindi si finirebbe per togliere ai ricorrenti un diritto acquisito. Se chiedono per la partecipazione ad un concorso, per es., la terza media, e io l’ho ottenuta pur senza avere la licenza elementare, ma un titolo equipollente, che in un dato momento storico per legge mi consentiva l’accesso alla scuola media, come la mettiamo? O il mio percorso di studi prima della terza media è considerato equipollente, oppure si stabilisce che chiunque abbia conseguito la licenza media senza aver frequentato regolarmente una scuola elementare, è tagliato fuori, anche se di fatto a quella scuola media lo si è ammesso, lo si è fatto frequentare, gli si è rilasciato il titolo a pieni voti. Fuor di metafora, inoltre, questi colleghi, dopo la laurea e la specializzazione, sono stati ammessi a sostenere l’Esame di Stato, hanno sostenuto lo stesso esame dei colleghi neolaureati in Psicologia, hanno ottenuto l’abilitazione. E’ possibile che allora, almeno al pari di questi neolaureati, essi non possano essere ammessi ad un pubblico concorso, non possono non dico vedere riconosciuta la loro formazione in psicoterapia nel frattempo intrapresa, ma neanche intraprendere ex novo una scuola di psicoterapia?

Naturalmente gli specialisti in Psicologia sono una minoranza, si potrà, con la solita logica dello struzzo, obiettare all’interno dell’Ordine. La maggior parte di questi colleghi, infatti, se specializzatisi prima della prima applicazione della legge (entro il 1990), nella maggior parte dei casi avevano già vinto un Pubblico Concorso, hanno in seguito ottenuto l’autorizzazione ex art. 35, e quindi non hanno nessun interesse a «venire allo scoperto».

Quelli che si sono specializzati dopo il 1992, quando la scuola era già quadriennale e quando comunque il nuovo statuto prevedeva che per i prossimi cinque anni dall’entrata in vigore delle nuove norme (il nuovo statuto è del 1988), oltre ai laureati in psicologia, potevano iscriversi alla scuola anche laureati in altre Facoltà, hanno potuto ottenere, grazie alla disponibilità dell’Università di Torino, la Laurea in psicologia con un pro-forma, e quindi hanno potuto iscriversi all’Ordine.

Resta quindi solo una sparuta minoranza, che si è specializzata fra il 1990 e il 1992, e che, avendo ottenuto l’iscrizione all’Ordine, non è stata coinvolta dalle Scuole per «trasformare» la Specializzazione in Laurea, presso l’Università di Torino. E questo in quanto niente, allora, lasciava prevedere che l’Ordine della Lombardia si sarebbe arroccato su una interpretazione della legge che, nel tentativo di negare il diritto ad esercitare la professione a quei colleghi non laureati, che, lo si volesse o no, erano entrati nell’Albo, avrebbe finito per assumere un atteggiamento ostruzionistico fino al punto di negare valore anche a questi titoli universitari di Specializzazione, che da una parte erano stati riconosciuti validi per partecipare all’Esame di Stato, e che costituivano di fatto la formazione di base della maggioranza dei Consiglieri e degli accademici della Lombardia, ma che dall’altra non venivano reputati sufficienti per i Concorsi Pubblici, nè per iscriversi ad una scuola di psicoterapia.

Credo che l’Ordine avrebbe dimostrato maggior coraggio se avesse proposto una modifica della legge 56/89, in cui si dicesse chiaramente che «i colleghi non in possesso di laurea in Psicologia, seppure iscritti all’Ordine grazie alle norme transitorie, saranno per sempre esclusi dalla possibilità di partecipare a Concorsi pubblici, sarà loro impedito di accedere alla formazione psicoterapeutica, e, nel caso non abbiano conseguito l’autorizzazione ex art.35, ogni percorso formativo che andasse nella direzione del conseguimento di un Diploma in psicoterapia, da essi intrapreso prima del pronunciamento della commissione ordinistica, verrà a tutti gli effetti annullato».

Così si potrebbe infatti enunciare il comportamento che l’Ordine (almeno quello della Lombardia) ha tenuto in questi anni.

Se fosse passato un simile emendamento, magari nel 1995, oggi se non altro gli specializzati rimasti «nel limbo», avrebbero già potuto rivolgersi alle Università, chiedendo un completamento del piano di studi, e forti anche del precedente dei colleghi specializzatisi gli anni successivi, avrebbero potuto ottenere una laurea a tutti gli effetti!

Ma l’Ordine non ha presentato questo emendamento, perché niente, nell’impianto della legge, poteva far pensare che l’intenzione fosse quella di creare gli psicologi di serie A e di serie B, e certamente, questo emendamento non sarebbe passato!

E allora?

Se qualche «mosca bianca», Specialista in Psicologia, facesse ricorso e, come credo, lo vincesse, verrebbe a cadere anche l’arroccamento sul requisito della laurea in psicologia, e finalmente si verrebbe alla vera questione:

La vera questione è quella di discutere nel concreto quali possano essere le ragioni degli Ordini di difendere l’omogeneità dei titoli e della formazione di base degli iscritti, al di là delle questioni corporative e di potere.

Se infatti, come si é detto e scritto, si tratta di difendere i diritti degli utenti (o clienti o pazienti), si sarebbe proposto e trovato un accordo sulla formazione integrativa e aggiuntiva (cosa che fin da subito era stato proposto per risolvere il problema, il più odioso e assurdo, dei colleghi delle «zone d’ombra» o delle «zone buie»). Erano state fatte proposte ragionevoli dalla Commissione Psicoterapia presieduta dal prof. Madonna: valutiamo con un censimento la situazione dei colleghi caso per caso, e stabiliamo percorsi personalizzati, da sei mesi a due anni, al termine dei quali questi colleghi possano uscire dal limbo.

A tutt’oggi tali soluzioni sono state individuate col contagocce, di fatto risolvendo solo i problemi di quei colleghi laureati in Psicologia, già in possesso di diplomi quadriennali in psicoterapia, ai quali, solo per essersi laureati in ritardo rispetto alla data indicata, è stato imposto un inutile e ingiusto ulteriore sforzo. Ma almeno per loro una soluzione è stata trovata, mentre per tutti gli altri, laureati o specializzati che fossero, seppure allo stesso modo fossero da anni allievi di scuole di psicoterapia, l’Ordine, per «difendersi» dal fantasma, dall’ossessione di questi «non laureati», ha preferito ignorare tutti gli altri colleghi in blocco.

Se veramente il problema fosse quello di omogeneizzare la formazione di base, per garantire, come giustamente si è detto, lo standard minimo delle prestazioni, la strada più ovvia e praticabile sarebbe proprio quella di permettere ai colleghi ormai iscritti all’Ordine (ripeto, che lo si voglia o no!) di «mettersi in regola», di integrare la propria formazione universitaria e, in seguito, di accedere alle scuole di psicoterapia, ovvero di veder riconosciuto il proprio percorso ed eventualmente di completarlo.

Basta valutare la formazione di partenza e stabilire i modi e i tempi dei percorsi integrativi, stabilendo criteri semplici ed equi, che soprattutto tengano conto del fatto che, laureati o no, si tratta sempre di colleghi che hanno ottenuto l’iscrizione all’Ordine.

Del resto, questo problema dello standard minimo delle prestazioni e dell’omogeneità della formazione necessaria e sufficiente, se veramente è orientato da una preoccupazione per l’utenza, appare tutt’altro che risolto dalla politica attuale degli Ordini, in quanto non è chiaro per quale motivo un paziente, nel privato, dovrebbe «accontentarsi» di finire nelle mani di un «macellaio» o di un «vu’ cumprà», senza che l’Ordine si preoccupi di tutelarlo, mentre nel Servizio Pubblico sarebbe più importante la tutela di questo stesso diritto. Senza contare che poi lo stesso «macellaio» o «vu’ cumprà» può esercitare nel Servizio Pubblico con gli stessi pazienti ed essendo naturalmente la stessa persona, nel caso abbia con l’Ente Pubblico un rapporto di Consulenza, per il quale, come e’ noto, e’ sufficiente l’iscrizione all’albo. Se non è dipendente, quindi, uno psicologo di serie B, può lavorare impunemente con i pazienti.

Che senso ha tutto questo?

Faremo il possibile per costituire un comitato di autotutela degli specialisti in psicologia che, specializzatisi prima del 1992, non abbiano tuttavia vinto un concorso pubblico, ma siano iscritti all’Ordine e lavorino da anni come consulenti presso le ex USSL e gli Ospedali. Così come stiamo facendo il possibile, su un piano più generale per appoggiare le iniziative del comitato psicologi psicoterapeuti precari.

Con questi Comitati, certamente, faremo valere anche il significativo precedente dei colleghi che, per iscriversi all’Ordine, hanno avuto l’appoggio dell’Università di Torino e hanno potuto facilmente trasformare la loro specializzazione in laurea, e oggi si trovano paradossalmente avvantaggiati rispetto a chi, invece, per aver ottenuto l’iscrizione all’Albo, si trova tagliato fuori dai concorsi pubblici e anche dalla possibilità di iscriversi ex novo ad una qualunque scuola di psicoterapia.

Ma vorremmo evitare di dover arrivare ad un ennesimo, sfibrante, inutile scontro; la «morale» che si dovrebbe evincere da queste riflessioni e soprattutto dai fatti che hanno portato ad una vittoria del MoPI così ampia da superare le aspettative e forse anche le intenzioni dei promotori, è che bisogna trovare una soluzione che tenga conto dei problemi e dei diritti di tutti i colleghi che hanno ottenuto e otterranno, con queste due nuove sessioni d’esame, l’iscrizione all’Ordine. E questa soluzione deve essere accoglitiva e definitiva, e bisogna smetterla di determinare spaccature, guerre fra poveri, capri espiatori ed equivoci a non finire.

E’ evidente, per altro, che la legge 56/89, mettendo insieme psicologia accademica e psicoterapia, prevede per gli psicologi una formazione accademica, e che gli psicologi, anche non laureati, di cui al comma D dell’articolo 32, avrebbero dovuto essere la sola eccezione, ammessa proprio per «documentati riconoscimenti nazionali o internazionali...»

Forse, come molti sostengono, l’art. 34 fu scritto facendo riferimento ai colleghi delle scuole di specializzazione pubbliche, post-lauream (che erano, appunto, triennali). Ma l’articolo 34 non le menziona espressamente, l’ordine, infastidito dal fatto che, a suo parere, grazie all’art. 32/D erano entrati in realtà più colleghi di quanto non fosse realmente prevedibile in base ai requisiti, ha pensato di risolvere il problema facendo ostruzionismo su tutto il resto, con il risultato che, per non trovare una soluzione per chi era ormai dentro, ripeto, una soluzione che poteva anche andare nella direzione di concordare una formazione aggiuntiva, ha preferito andare allo scontro, con il risultato che, oggi, molti altri colleghi non laureati (e nemmeno in possesso di documentati riconoscimenti nazionali o internazionali, previsti dal comma D dell’art. 32), potranno a pieno titolo iscriversi all’Ordine.

Si badi bene, i diritti di questi colleghi devono essere tutelati, il MoPI si batterà per questo fino all’ultimo, ma noi speriamo che l’Ordine non persista in questo atteggiamento di chiusura, quale potrebbe essere quello per cui, per salvare il salvabile, perseverasse nel voler separare le «carriere» pubbliche da quelle private, mettendo gli specializzati nella posizione dei «capri espiatori». Purtroppo gli Ordini non hanno cercato una mediazione, un interlocuzione seria con il MoPI, e ora siamo a questo punto.

Ma se proprio si ritiene che alcuni colleghi siano stati autorizzati senza avere la formazione sufficiente, invece di bloccarli nel «limbo» delle «zone d’ombra», e per di più rischiare che comunque costoro esercitino la psicoterapia, illudendosi di poterli realmente controllare, gli si dia la possibilità di farsela, questa formazione, in modo però da tener conto, caso per caso, sulla base dei percorsi accademici e professionali svolti, di una base di partenza da riconoscere.

Si potrebbe andare da un minimo (es. colleghi non laureati, entrati con l’art. 32/D o con l’esame di Stato, che potrebbero conseguire la laurea in Psicologia in tre anni, con piano di studi da stabilire), ad un massimo (es. colleghi laureati, specializzati presso scuole Universitarie riconosciute ex D.M. 30.1.1998, che hanno sostenuto l’esame di Stato e hanno ottenuto o stanno ottenendo l’autorizzazione all’esercizio della psicoterapia ex art. 35, a cui potrebbe essere riconosciuta una equipollenza tout court ai fini concorsuali o di carriera), passando per stadi intermedi, per cui si concordano percorsi di laurea in Psicologia che potrebbero andare da sei mesi a tre anni, valutando individualmente e caso per caso i percorsi formativi e professionali svolti.

In questo modo si risolverebbe in un solo colpo il problema dell’adeguamento dei titoli accademici (con conseguente omogeneizzazione della formazione di base), e in parte anche le questioni legate all’art. 35 che, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, avrebbero dovuto definitivamente chiudersi, infatti i colleghi psicoterapeuti non laureati, che hanno dovuto interrompere l’attività psicoterapeutica a seguito della negativa sentenza della Corte, oggi potrebbero acquisire la laurea in Psicologia in modo abbreviato, e in seguito, se non altro, accedere ex novo ad una scuola di Psicoterapia (anch’essa eventualmente, caso per caso , abbreviata).

I requisiti e i criteri potrebbero essere questi:

Per chi non è laureato: le scuole triennali per assistenti sociali ed educatori (più l’abilitazione o l’iscrizione all’albo) danno diritto all’iscrizione al terzo anno accademico, con il vincolo di sostenere dieci esami ritenuti fondamentali (es. psicologia generale, dello sviluppo, psicodiagnostica, teoria e tecnica dei reattivi, ecc.)

Per chi è laureato in altra facoltà e ha sostenuto l’esame di Stato, si potrebbe concordare un biennio, con tesi finale.

Per chi, laureato in Sociologia, Filosofia o Pedagogia, avesse fatto un piano di studi con indirizzo psicologico e tesi in argomento psicologico, si potrebbe concordare un percorso di un anno, con o senza tesi finale (per es., in base alle pubblicazioni e alle ricerche svolte);

Per chi è laureato ed ha un titolo di specializzazione universitario post-lauream:

- se il titolo è biennale (es criminologia), si concorda un piano di studi di un anno, con tesi finale; se si è sostenuto l’Esame di Stato e si ha una laurea con piano di studi e tesi a carattere psicologico, si può concordare solo una tesi finale.

-Se il titolo di studio è triennale (= specializzazioni riconosciute dal D. M. 30.1.1998), si concorda solo una tesi finale. Se si è sostenuto anche l’Esame di Stato, si potrebbe concedere tout court l’equipollenza di questo titolo alla laurea in psicologia.

Naturalmente queste sono solo indicazioni di massima, che potrebbero essere definite meglio e studiate nei particolari.

Ci teniamo però a precisare che trovare la soluzione a questi problemi non sarebbe necessario solo per permettere l’accesso ai Concorsi Pubblici a tutti quei colleghi che lo desiderassero. Si tratta di evitare il pericolo di una spaccatura all’interno della categoria, fra psicologi ex. art. 3 e ex art. 32,33 e 34, che avrebbe poi, come conseguenza indiretta, l’esclusione degli psicologi delle norme transitorie dagli Ospedali e dalle Asl, e l’impossibilità di accedere a formazioni aggiuntive in psicoterapia, se non sottoponendosi all’ingiusto e impensabile sforzo di conseguire una laurea in Psicologia, quando già si lavora da anni e quindi da una parte non si ha più il tempo, e dall’altra si ritiene, giustamente, di possedere già quella formazione e che un simile sforzo e dispendio di energie intellettuali e psichiche possa essere considerato degno di miglior causa.

Nella grande confusione che è stata fatta, fin da subito, fra le ragioni dei «trentaquattristi» e quelle dei Colleghi delle zone d’ombra o delle zone buie, e più in generale fra psicologia accademica e psicoterapia, la famosa sentenza della Corte Costituzionale, che respinge l’eccezione di incostituzionalità e sancisce la necessità della laurea per l’esercizio della psicoterapia, di fatto permette di chiarire con molto buon senso che:

1) l’intenzione del legislatore era quella di garantire che la psicoterapia non fosse permessa a chiunque, ma solo a chi si era costruito un curriculum che potesse essere considerato equipollente a quello di un medico o di uno psicologo;

2) che l’acquisizione di questo curriculum precedesse l’acquisizione della formazione psicoterapeutica.

3) Tale formazione, poteva, seppure in via eccezionale, essere costituita da un titolo accademico diverso dalla laurea in psicologia o medicina, ma doveva in ogni caso essere un titolo accademico.

Dunque la Corte Costituzionale riflette sullo spirito della legge, non a partire da una suddivisione fra iscritti all’ordine con la legge a regime e iscritti all’ordine con le norme transitorie. Fa un ragionamento assolutamente diverso: tende a considerare alla stessa stregua i diritti di tutti gli iscritti all’ordine, stabilendo, però, che per accedere alla formazione psicoterapeutica occorre avere conseguito una formazione accademica.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 412/95, se fosse stata commentata e accolta con giudizio dagli Ordini, avrebbe potuto contribuire in modo decisivo a risolvere definitivamente la vicenda.

Infatti le indicazioni della sentenza, andavano nella direzione di considerare in modo unitario i diritti degli iscritti all’Ordine degli Psicologi, sia che si fossero iscritti grazie alle norme transitorie, sia che si fossero iscritti ex art. 3, specificando però che la formazione accademica, necessaria per l’iscrizione all’ordine degli Psicologi e per l’esercizio della professione di Psicologo, con la sola eccezione di cui all’art. 32/D, era da ritenersi inderogabile per tutti gli Psicologi che volessero esercitare, o proseguire nell’esercizio, della Psicoterapia.

Dunque la Corte Costituzionale permetteva di sciogliere la matassa, distinguendo fra formazione accademica (quindi tutta la formazione accademica, compreso l’eventuale diploma di Specializzazione Universitario, ricade in questo prerequisito, equipollente alla sola laurea in Psicologia) conseguita prima della specifica formazione in Psicoterapia, e formazione professionale specifica (appunto la scuola o la formazione in Psicoterapia), che doveva essere stata acquisita successivamente alla formazione accademica, e doveva essere diversa, quindi, sia nei tempi che nei contenuti (in questo modo, infatti, la Corte Costituzionale giustifica la clausola degli «almeno cinque anni» dal Conseguimento del Diploma di Laurea).

A quel punto l’Ordine, (e questo risale ormai a quattro anni fa!), avrebbe potuto semplicemente concordare con il Murst e le Università dei percorsi di Laurea abbreviati per i Colleghi che, abilitati a partire dall’Art. 32/D (gli unici veramente esclusi chiaramente dall’esercizio della psicoterapia) si fossero trovati a dover interrompere l’attività psicoterapeutica perché - proprio a causa della mancanza del requisito della Laurea - non erano potuti rientrare nella sanatoria ex art. 35. Nello stesso tempo, gli stessi Colleghi avrebbero potuto concordare con le Scuole di Psicoterapia o gli Istituti presso i quali si erano formati, percorsi integrativi che potessero in seguito far risultare l’acquisizione dei diplomi in Psicoterapia come successivi al conseguimento del titolo accademico in Psicologia.

Invece no, gli Ordini hanno preferito continuare a fare confusione, mettendo nello stesso calderone Psicologia e Psicoterapia, e di fatto, a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale, hanno preferito congelare anche i percorsi di riconoscimento di tutti gli altri colleghi delle «zone d’ombra» e delle «zone buie. Questi ultimi in possesso di Laurea diversa dalla Psicologia, a cui la Corte Costituzionale indirettamente riconosce validità ed equipollenza a tutti gli effetti, quale «titolo di studio richiesto non irragionevolmente per attestare un livello culturale superiore, quale base considerata indispensabile per la formazione (successiva: questo termine non compare espressamente nel testo, ma si ricava dal capoverso successivo, in cui si dice che «non è irragionevole che il titolo di studio preceda la maturazione professionale -di psicoterapeuta- derivante dall’attività svolta per un adeguato arco di tempo, tanto più se l’esercizio di essa sostituisce la specializzazione, prevista dalla disciplina a regime e che si consegue solo dopo la laurea, mediante corsi di durata quadriennale») di un curriculum professionale adeguato».

Per continuare in questa confusione (che poi è il difetto originario, il vizio di fondo della legge 56/89, che ha voluto fare della Psicoterapia una professione riservata a Medici e Psicologi, subordinando la formazione all’acquisizione di quei requisiti e indirettamente, mettendo sotto il controllo dell’Accademia e soffocando nella logica universitaria i percorsi formativi in Psicoterapia), l’Ordine si è trascinato dietro i contenziosi che alla fine - e giustamente - hanno trovato soluzione nei pronunciamenti a favore dei 34isti che, accolti con riserva, avevano successivamente superato gli esami, e soprattutto nella sostanziale riapertura delle sessioni straordinarie dell’Esame di Stato!

Per non aver voluto trovare una soluzione equa e semplice per i pochi colleghi del 32/D, che, non volendo giustamente rinunciare alla loro professione, avrebbero potuto essere messi in condizioni di adeguare il loro curriculum accademico; per aver voluto ottusamente confondere i problemi di questi colleghi con quelli, di tutt’altra natura dei colleghi delle «zone buie» ex art. 35, con i quali sarebbe bastato addivenire ad un accordo con le Scuole di Psicoterapia per far completare loro i percorsi formativi, dato che la Corte Costituzionale aveva ratificato in modo autorevole l’ammissibilità dell’equipollenza dei titoli accademici (leggi: laurea in qualsiasi Facoltà, accompagnata o meno da Specializzazione Universitaria post lauream, che precedesse -almeno la Laurea- di cinque anni la presentazione delle domande ex art. 35, o comunque, per i colleghi appena iscritti alle Scuole di Psicoterapia, la «ratio» evidente era che un Diploma di Laurea dovesse essere stato conseguito prima di iscriversi alle suddette Scuole), conseguiti da questi Colleghi alla Laurea in Psicologia.

Grazie alla confusione (favorita dall’atteggiamento omertoso dell’ordine) fra «scuole di Specializzazione e scuole di Psicoterapia», confusione che è dimostrata anche dai pasticci del «doppio canale» e dalla conseguente incapacità a risolvere la questione delle specializzazioni richieste, oltre alla laurea, nei Concorsi Pubblici, oggi alcuni non laureati (non in possesso dei requisiti previsti dall’art. 32/D), tenteranno a pieno titolo di entrare nell’Albo, e i loro diritti, si badi, una volta superato l’esame di Stato, dovranno poter essere tutelati.



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