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Brevi note sull'articolo di Serge Ginger

di Anna Barracco, pubblicato il 14/03/2006, fonte Simposio, Anno 2, numero 1, aprile 2006

tag: serge ginger, francia, ordinamento psicologia, psicoterapia

L’articolo di Serge Ginger permette di riflettere sulla situazione italiana, e sullo scenario europeo. La legge francese, che si proponeva di organizzare ex-novo, di fondare, un ordinamento legale della professione, si fondava su principi che avrebbero soffocato i presupposti stessi della psicoterapia. La diagnosi, il primo incontro con la domanda di cura, era previsto come unicamente riservato al medico.

Il medico, a partire dal suo sapere, avrebbe dovuto stabilire se per quel soggetto era indicata la psicoterapia, e se sì, quale. Nel frattempo, sempre a partire dagli strumenti del sapere medico e dai suoi sistemi di ricerca, la task force dei promotori della legge, avevano proceduto a costruire trial di ricerca in grado di “dimostrare” quali, fra i tanti metodi conosciuti, fra i tanti approcci psicoterapeutici, erano quelli efficaci, e quali quelli “non scientifici”.

Questo approccio, approccio forte, basato su un’idea oggi dominante di “evidence based” e di scientismo, è franato in poco più di due anni grazie alla mobilitazione politica unitaria della categoria degli “psi”.

Questa mobilitazione politica è stata in grado di mettere in dubbio i fondamenti di cornice su cui l’intero edificio si basa: la domanda di cura è cosa che riguarda il medico, è cosa che riguarda la scienza, è oggettivabile e standardizzabile. Il movimento degli psicoterapeuti e degli psicoanalisti francesi, il movimento unito di tutti gli operatori della relazione, è riuscito invece ad imporre un’idea diversa, un diverso rapporto fra la domanda di cura e la libertà stessa, e a mostrare che qui non è in gioco qualcosa che riguarda il sistema sanitario, bensì sono in gioco i presupposti di una vera democrazia.

Ha mostrato che le competenze relazionali, le competenze professionali acquisite sul campo, sono molto più importanti del sapere accademico, ha dimostrato che la molteplicità degli approcci e dei metodi è proprio della peculiarità della disciplina, che è disciplina della soggettività e non ha nulla a che vedere con la cura intesa come “riparazione” o “restitutio ad integrum”.

Ha mostrato che l’ossessione di ogni Stato di omologare, di standardizzare, di ridurre, l’ossessione anche un po’ ridicola delle “sette religiose”, tipica delle società evolute, ad altissimo grado di anomizzazione, è spesso l’elemento che più gravemente rischia di frenare il processo di crescita e maturazione sociale.

Una fotografia del mondo psi, quale è quella che risulta dal “régistre”, permette già di dare una risposta, di collocare correttamente questa branca del sapere, quest’arte. La professione “psi” è una professione della seconda metà della vita, che si innesta su un’altra professione, si innesta sull’esperienza, sulla pratica, più che sulla grammatica. E’ una professione che si scopre cammin facendo ,e che non si sceglie a 18 anni.

E’ una professione che si incontra a partire da un’esperienza personale forte, esperienza che ha a che fare con un progetto politico che parte dall’implicazione della propria responsabilità soggettiva. Ogni psicoterapia che giunga a buon fine, può essere raccontata come un progetto di trasformazione politica: il soggetto aumenta le proprie capacità di fare legame sociale, migliora la propria percezione di libertà e responsabilità. Il percorso psicoterapeutico porta dunque ad una sensibilità sempre maggiore ai contesti e alle relazioni fra diversi punti di vista. Per questo solo motivo, la riduzione ad un metodo e ad un processo, è deleterio per la psicoterapia.

Per questo, è forse inevitabile che il potere si interessi della psicoterapia: tipico di ogni regime è l’ideale di ridurre il sapere a “Uno”. Per questo è però fondamentale che il mondo “psi” sappia contestualizzare adeguatamente il dibattito, che è dibattito politico.

L'articolo di Ginger a cui ci si riferisce è il seguente. (n.d.r.)



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