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Organizzazione della Psicologia Professionale: le polemiche fioccano, i pensieri sfumano, la professione annaspa

di Rolando Ciofi, pubblicato il 23/05/2011, fonte Mo.P.I.

tag: psicoterapia, organizzazione professionale, riforma professioni, ordini professionali

Si dice che i giovani psicologi siano troppi, che non trovino lavoro. La colpa sarebbe dello Stato, che non riserva agli psicologi compiti precisi ed esclusivi, in altri termini riserve professionali; sarebbe dell'Università che non si adopera per introdurre rigidi numeri chiusi e sarebbe infine del sistema formativo professionalizzante (in primis le scuole di formazione in psicoterapia) che offrirebbero formazione non solo agli psicologi, ma anche ad altre figure (insegnanti, avvocati, medici, triennalisti di varia provenienza, etc.) che finirebbero poi con il divenire i veri concorrenti degli psicologi stessi.

Si sostengono cioè - in danno di giovani colleghi ingenui poichè non ancora avvezzi a valutare le problematiche del mondo del lavoro - enormi sciocchezze che finiscono con il danneggiare seriamente la professione ed i suoi orizzonti. Se sommiamo questa tendenza a quella relativa alla medicalizzazione della psicologia, medicalizzazione della quale ho parlato in un mio articolo precedente, ci troviamo di fronte ad un quadro talmente fosco da bene giustificare l'ipotesi, da me avanzata appunto nel precedente articolo, di un radicale mutamento dell'ordinamento professionale.

Ma andiamo con ordine: il mercato del lavoro, tutto il mercato del lavoro e particolarmente quello legato alle professioni intellettuali, è profondamente mutato nell'ultimo trentennio. Ciò riguarda gli psicologi tanto quanto gli avvocati, i medici, gli insegnanti, i filosofi, ed oggi ormai anche gli architetti e gli ingegneri. Lo Stato assume sempre di meno, concede sempre meno riserve professionali, l'età media per l'ingresso nel mercato del lavoro si è paurosamente elevata, i contratti sono prevalentemente a tempo determinato, la precarietà insomma è elevatissima.

Noi tutti ci auguriamo certo che lo Stato riesca a superare la crisi e a dare maggiore stabilità economica e di vita ai propri cittadini. Ma non dimentichiamo che lo Stato siamo tutti noi. Noi che per primi abbiamo il dovere di 'rimboccarci le maniche'. Addossare demagogicamente la colpa all'Università che forma troppi psicologi è come addossarla alla società intera che esprime una forte domanda di psicologia (perchè mai se no gli studenti si iscriverebbero così numerosi?). Con il paradossale risultato di dirottare una domanda (che ad esempio dalla psicologia senza troppa difficoltà può spostarsi verso la filosofia o le scienze della formazione) verso altre comunità professionali, e di diminuire l'offerta di lavoro ai colleghi (non pochi dei quali infatti gode di qualche forma contrattuale proprio con l'Università).

Ma ancor più insensato è l'attacco alla scuole di formazione a vario titolo professionalizzanti (prime tra tutte le scuole di psicoterapia) che sono il vero 'fiore all'occhiello' della psicologia italiana (teniamo conto ad esempio del fatto che, nonostante tali scuole formino sia medici che psicologi, nella stragrande maggioranza dei casi sono dirette da psicologi).

Attacco insensato ed ottuso per almeno tre validi motivi:

1. E' scontato ed internazionalmente riconosciuto il fatto che la strada maestra per introdursi nel mercato del lavoro oggi, in tutto l'occidente, è la formazione professionalizzante, l'aggiornamento permanente, la flessibilità. Nelle nostre scuole di formazione lavorano, ed è il mercato che ciò richiede, i migliori tra i nostri professionisti. Se ai nostri giovani colleghi vogliamo dare un futuro professionale serio, non è convincendoli che qualcuno dovrebbe dar loro qualcosa di diritto che assolveremmo il compito. Noi viviamo in un tipo di società nella quale è semplicemente demagogico e irrealistico, pensare che immediatamente dopo la laurea ci sia il posto di lavoro. C'è invece l'ingresso nel mondo del lavoro, complesso, difficile, e le scuole sono le uniche realtà in grado di effettuare questo complicato accompagnamento.

2. Le scuole di psicoterapia sono l'unico patrimonio (piccolo) che la comunità possiede. Piccoli Enti di formazione (sono piuttosto rari i casi in cui il fatturato annuo superi il milione di euro), dotati di riconoscimenti da parte del Ministero dell'Università, spesso delle Regioni, in taluni casi di altri importanti Enti pubblici. Dotate di sistemi di qualità. E interesse della comunità sarebbe aiutare tali Enti ad ampliare i propri orizzonti, a consorziarsi per partecipare a progetti più ampi, ad entrare in competizione con la 'grande ' formazione. Ciò sia perchè gli psicologi possono acquisire la consapevolezza di avere, come formatori, 'una marcia in più', sia perchè è naturale che se le scuole crescono in tali Enti crescono gli occupati, i quali saranno se non esclusivamente, prevalentemente colleghi.

3. C'è una grande richiesta di acquisizione di competenze psicologiche da parte di chi psicologo non è. Insegnanti, counselor, mediatori, etc. Impedire o tentare di impedire alle scuole di fornire tali competenze è semplicemente stupido in quanto sposta un settore di lavoro attualmente gestito da psicologi nelle mani di altre figure professionali senza minimamente incidere sulla domanda, che è una domanda di tipo sociale. Tanto per citare un aneddoto: recentemente, per conseguire l'abilitazione di mediatore civile, ho dovuto partecipare a lezioni relative a 'tecniche di mediazione del conflitto' nelle quali il docente era un giovane avvocato.

Riflessioni pacate, come noteranno i miei lettori, siano o meno colleghi. Riflessioni pacate che meritano però seri approfondimenti. C'è bisogno di un cambiamento di prospettiva nella psicologia italiana. C'è bisogno di nuovi e più sensati progetti. Per quanto mi riguarda. ci sto lavorando.



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