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Psicologia e maieutica. Siamo ormai ad una scissione

di Rolando Ciofi, pubblicato il 04/05/2011, fonte Mo.P.I.

tag: psicoanalisi, psicoterapia, esercizio abusivo professione, cassazione

Quando si perde una battaglia occorre anzitutto avere l'onestà intellettuale di ammettere la sconfitta. Bene. Così è andata, per me e per quella parte della psicologia professionale italiana che ritengo di rappresentare, con la sentenza n. 14408 del 11 aprile 2011 sulla psicoanalisi laica. Non è la prima battaglia persa. C'è stato il passaggio della vigilanza sull'Ordine degli Psicologi dal Ministero della Giustizia a quello della Salute, c'è stato il caso dell'Accademia medica che pone sotto la propria ala l'Accademia psicologica. Ormai è un trend.

Non è mia intenzione qui entrare nei dettagli. Le Istituzioni vanno rispettate. Se la magistratura decide che la psicanalisi è una psicoterapia medica occorre prenderne atto. Lo stesso vale quando Parlamento o CUN assumono decisioni rilevanti per la professione o per la disciplina.

Dunque con sempre maggiore chiarezza la psicologia è una questione sanitaria. E sanitaria significa, anche nel linguaggio usato dalla Cassazione, di impronta inequivocabilmente medica.

Ecco le parole precise della Cassazione: Né può ritenersi che il metodo 'del colloquio' non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v'è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un'attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l'anoressia) il che la inquadra nella professione medica.

Io non mi riconosco nella psicologia come così la si va disegnando. Con me non si riconoscono in questa visione molti colleghi.

Sono un gestaltista. Il mio modello di psicologia è quello umanistico. Il mio concetto di salute è olistico, sempre di salute parlo, ma non è la salute così come la intende un medico. Analogamente se parlo di clinica di un'altra clinica si tratta rispetto a quella medica. Credo inoltre che ci sia una terapia non clinica. Che non abbisogna del passaggio lineare anamnesi, diagnosi, trattamento. Nel racconto della storia, unica, di un soggetto al suo terapeuta, si forma concordemente la diagnosi che è, se condivisa, al contempo terapia. L'antiquato concetto di consapevolezza insomma per me ancora ha il suo fascino. E ancora credo che ogni soggetto sia unico, ed indebita ogni generalizzazione. E che nessuno psicoterapeuta 'curi' attraverso 'ricette' 'trucchi' 'tecniche' 'protocolli'. Credo che la 'cura' psicologica sia questione di relazione, all'interno della quale certo hanno un ruolo sia i fenomeni transferali che quelli di setting. Ma i fenomeni transferali e di setting hanno un ruolo in tutte le relazioni umane, la differenza è che gli psicologi e tutti quegli operatori che vi si richiamano, ne hanno contezza.

Credo altresì che la ricerca, rigorosa e scientifica, sia utilissima. Ma che questa stia alla terapia come la critica sta all'arte. Non vi può essere arte senza critica severa, ma raramente i critici sono anche artisti.

Siccome la psicologia Italiana ha ormai imboccato la strada della medicalizzazione (guidata da un sindacato che da questo fenomeno ha da guadagnare la parificazione del trattamento tra psicologi e medici all'interno dei servizi pubblici), io che non lavoro nel pubblico, sono disposto a lasciare sul campo il mio titolo. Che gli psicologi diventino dei paramedici, se così fa loro piacere. Per quanto mi riguarda faccio fatica a considerarmi psicologo quaqndo allo psicologo si vogliono dare tali connotati. Mi inventerò un nome nuovo pur rimanendo (poichè così mi obbliga la legge, per ora) all'interno della stessa comunità.

Comunità dalla quale al contempo ritengo ormai inevitabile, mantenendo intatti i diritti derivanti dalla mia storia, dai miei titoli, dal mio percorso, separarmi, divorziare. Il problema è che per siffatto divorzio non esistono ancora le procedure. Occorrerà allora lavorare per costruirle tali procedure.

Non ho nulla a che vedere con un Ordine Professionale al quale devo per legge essere iscritto ma dal quale non mi sento minimamente rappresentato. La psicologia, subito un gradino sotto la filosofia (sotto nel senso che maggiormente collegata al pragmatico) è cultura, ovvero una scienza umana, subito un gradino sopra (sopra nel senso che si occupa del soggetto nella sua globalità) della medicina che è tecnica. Una psicologia che diventi tecnica ammette il 'terzo', la parte malata, che giustifica appunto le tecniche intervenienti sul nucleo scisso dall'insieme. Quando vedo un cliente non vedo una parte malata, vedo il cliente, nella sua unicità, nella sua soggettività... e non ci sono protocolli che mi aiutino nè atti tipici che mi abilitino.

E allora chiamatemi maestro, chiamatemi poeta od artista, chiamatemi maieuta, ma per carità basta, non chiamatemi psicologo. Ho questo ultimo titolo poichè ne ho diritto, ma in questa situazione mi infastidisce usarlo. Non trovo né illegittimo né insensato il fatto che la maggioranza del mondo della psicologia professionale abbracci con decisione un modello 'scientifico'. Nella storia delle nostre discipline, sin dagli esordi, si sono contrapposti e scontrati il modello 'scientifico' e quello 'umanistico'. Il dramma di oggi è che il primo, politicamente più forte, sta 'strozzando' il secondo.

Rivendico alla psicologia come io la intendo, come disciplina di area vasta, l'arte maieutica. Ovvero quella per cui attraverso il dialogo, le verità sedimentate nella coscienza vengono portate alla luce e palesate dagli interlocutori con i propri mezzi in ragione dei passaggi logici propri del discorso.

E se essendomi ridefinito maieuta ed essendo almeno da un punto di vista nominale uscito da una comunità asfittica mi guardo intorno, mi ritrovo ad appartenere ad una comunità professionale ben più vasta di quella degli psicologi (o di quella medico-psicologica). Sì perché comprende oltre un milione di soggetti, insegnanti, filosofi, pedagogisti, counselor, psicoanalisti laici, mediatori, coach, consulenti matrimoniali e familiari, sino ad arrivare perché no ai consulenti spirituali.... Questa la mia grande famiglia all'interno della quale certo ho le mie specificità, di percorso, di studi, di attitudini, con la quale però condivido una visione dell'essere umano e della sua 'salute'. 'Salute' che è nella disponibilità e nella responsabilità del soggetto, 'salute' non delegabile rispetto alla quale il tecnico è strumento e non agente primario.

Dunque identificandomi con questo mondo più che con la corporazione alla quale mi tocca di appartenere, lancio ai miei colleghi, ma non solo ai miei colleghi, ma anche a tutti coloro che appartenendo al mio modello culturale di riferimento intendono appoggiarmi, una proposta semplice: divorziamo. Da una parte la psicologia delle ASL, la psicologia che insegue il modello medico. Dall'altra parte la psicologia del modello maieutico, umanistico.

Attenzione, troppo facile dire se vuoi andare vattene. Il divorzio è una cosa seria. Si discute in Tribunale.

E il nostro Tribunale sarà il Parlamento che è deputato a legiferare. La legge 56/89 è arrivata ormai a capolinea. La sua interpretazione ha portato ad una insanabile spaccatura. Anziché unificare una disciplina sul piano professionale ha creato i presupposti per una definitiva scissione. E dunque, dal mio punto di vista almeno, che si cominci a parlare di un superamento di tale legge.

Vi sono due misure semplici che possono essere assunte e che possono dare spazio, ugualmente dignitoso, alle due diverse anime della psicologia professionale italiana.

1. Abolizione dell'Ordine degli Psicologi e sua trasformazione in Associazione. Gli psicologi potranno così scegliere liberamente l'ambito culturale e professionale all'interno del quale inserirsi.

2. Statuto autonomo, associativo, (così come nella maggior parte degli Stati Europei) della psicoterapia. Gli psicoterapeuti, liberi dalla sudditanza politica nei confronti di medici e psicologi, potranno così autonomamente definire la loro professione.

Del resto che si stia arrivando ad una faticosa riforma delle professioni intellettuali è un fatto. Cogliamo l'occasione per chiedere, all'interno di tale riforma, la rivisitazione della legge 56/89.



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